La Sicilia ha le gambe storte e il sorriso grande. Quando ti parla non sei mai sicuro di quello che ti vuole dire, gli sguardi sfuggenti, a volte sospettosi, al tempo stesso sferzanti e generosi. Ho camminato tra i limoni con quel vestito che ricordo ancora, sembrava quasi che le tonalità del giallo e del verde volessero confondersi tra i rami e le foglie di uno di quei quadri che, a volte, le terre incantate regalano ai passanti. Ti ho preso per mano, e di questi tempi non si fa più molto spesso, perché ho avuto il desiderio di trasferire le sensazioni morbide e ospitali di corpo in corpo, quasi il profumo aspro del limone, a tratti coperto dai toni più intensi dei cespugli di origano in ogni dove, potesse arrivare a te risvegliando lo stesso desiderio di purezza e di gioia che mi attraversava con furia e impeto di altre epoche, di altre storie, probabilmente anche di altre terre. I ragazzi, poco più avanti, ascoltavano la musica e osservavano un mare che così intensamente blu è solo in Sicilia, probabilmente immersi in pensieri leggeri e annoiati, premio e castigo di quell’età acerba. Ho cercato di trasferirgli la semplicità di quella nostra colorata isola convinta come sono che sia proprio dal tratto semplice che solo può derivare ogni più nobile complessità. E’ da un ristorante che serve ricci appena pescati sul mare che nascono le pagine di Andrea Camilleri, è dal dialetto del pescatore che si evolve l’esercizio letterario. Cromosoma Y senior e cromosoma Y junior si sono inebriati della semplicità siciliana, puoi ancora oggi trovargli le dita unte di arancini e sentirli dire uno all’altro: ‘Mi hai rotto i cabbasisi!’. La Sicilia è femmina dicono alcuni, crudele, efferata, aperta, sorridente, colta, coraggiosa, timida, resiliente. La Sicilia è sapiente. Sul mare, in quella sera così calda che l’Africa sembrava più vicina, ci siamo seduti in quel ristorante che aveva la tovaglia ricamata, con la signora anziana, vestita di lutto, accanto all’ingresso a fare l’uncinetto. Ci hanno servito pasta alle sarde, caponata e un assaggio di sarde a beccafico perché ‘i picciariddi nun si sa se i gradisciono’ (in tutta la sua storpiatura questa frase mi è rimasta in mente scritta proprio così). Il mare agitato e nervoso spruzzava i tavoli davanti a noi e il silenzio lasciava spazio solo agli sguardi e ai gesti intenti ad inzuppare il pane. Chissà com’è che ti accorgi dell’immenso solo quando ti immergi nel primitivo, nello schietto e modesto. Credo abbia a che fare con la capacità dirompente che il semplice ha di sbaragliare ogni precedente sovrastruttura, accendendoti i sensi e catapultandoti in un qui ed ora che raggiunge le tue corde più profonde, il senso stesso prima ancora del significato. Il giorno dopo, quando siamo andati a cercare la casa di Montalbano era troppa l’attesa e troppo poco il tempo e ci siamo guardati l’un l’altro condividendo la stessa malinconica delusione. Come tanti siamo andati a cercare quello che non avremmo mai potuto trovare, perché, come nel teatro, quando finisce la storia rimane solo il palco, vuoto, desolato, testimone riluttante della meraviglia accaduta. La meraviglia non era in quella casa e tanto meno in quella spiaggia. La meraviglia era nella Sicilia e in Andrea Camilleri. La meraviglia era in noi e nella nostra capacità di vivere la semplicità senza aspettativa, la meraviglia è nelle parole che accompagnano al sublime, grazie Maestro, buon viaggio.